“Il grande regno dell’emergenza”, racconto su Nazione Indiana

Tratto da una raccolta omonima.

Betta per fortuna non la scovava, non doveva salvarla. I bambini erano troppi e incoerenti, non poteva salvarli. Scontrosi come atomi bombardati da quella pletora di stanze piegate, e il mondo attorno che s’incaparbiva, chiudeva il conto con una linea netta e desolata in fondo al dare e avere. Betta avrebbe potuto sottrarsi da sola alle macerie, almeno per stavolta, con l’aiuto delle sue braccine violacee. Sarebbe stato un segno di maturità. Avrebbe sporto il capetto da tartarughina troncando un coccio più friabile, stirato il muso in una ruga, scostatasi di dosso una doccia di calcinacci. Solo dopo aver fatto scorrere fuori dal cumulo le sue poppe asciutte, avrebbe steso l’obiettività della sue gambe mozze. In aria, in un luogo neutro, simile a quello dell’edificio, ma senza strozzatura e gravità.
I bambini erano invece pesanti, tesi alle spalle, geroglifici, annodatissimi nel risveglio di quelle urla sfasate, anche se Ruberti li scioglieva e cercava d’animare. Gli avrebbe fatti anche cantare in coro per poter assorbire le urla che puntellavano ogni angolo dell’edificio. O avrebbe dovuto, a mali estremi, fare alla svelta quel sogno spugna, quel sogno aspirante, quella visione rastrello, che ripulisse il mondo da quella catasta di scaglie, di calcina e ferracci ossidati, con Betta ficcata sotto, che poi rispunta su ogni volta, monca. Farla magari nel bagno dell’edificio segnalato in verde al secondo piano, la proiezione liberante, senza additivi o barbiturici, tenendosi le meningi come i superuomini, che cambiano in un vortice mentale le crettature. In un angolo piastrellato di rivincita personale, ingolfettato, con la pancia dura che si protende dalla cinghia di finta pelle. Prodigioso e focalizzato come una lettera di rettifica al Provveditorato agli Studi. Invece stava lì a zampettare su e giù per tutte le scale, spoglio di visione e scisso come tra gli scomparti di una storia inconciliabile, trafelato a distribuire i suoi alunni dentro e fuori le stanze, come risciacquando dei panni, a cercare un punto d’equilibrio per le loro schiene, che non fosse troppo compromettente. Era lontano anche dall’ipotesi di una salvezza, se ne prendeva gioco. Si era persino alleato con alcuni più bolsi e cinici, cisposi in viso, poco compassionevoli, in atteggiamento di perenne scherno. Anche lui, il maestro Ruberti con addosso l’indifferenza inquieta di quelli, la fissità della cellulina di gesso con gli occhietti vispi sulla lavagna, con cui aveva spiegato la meiosi in mattinata.
Era il sogno del gesso, quello redimente, che aveva già percorso. Ed era un sonno perenne, sotto una coltre, abraso. Ricco di occhietti, palpebre sulle celluline della lavagna. Se fai il maestro, aveva pensato prima di fare la Domanda, se ti vuoi far spiegare invece di spiegarti, hai l’opzione d’una provincia disposta a cullarti, una cuccia periferica di feltro grezzo, che ti va giusta addosso. Da decenni ha fatto il maestro di Scienze, parlando con analogie buffe, questo per non agire sui corpi altrui, nella speranza di salvarli, o magari, doverli terminare: salvarli altrimenti. L’alleanza con la scienza degli occhietti di gesso, dei diminutivi. Come antidoto contro il sogno ricorsivo di Betta, e i suoi moncherini al cielo, intamponabili nella Bologna scolorata.

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